Scrivere di Chiamami col tuo nome è difficile,
perché l’hanno già fatto praticamente tutti – e molto prima di me.
Ho letto il
libro alla fine dell’estate, a cavallo tra un posto e l’altro della mia vita,
anche un po’ d’impulso – con l’e-book comprato solo grazie ai soldi rimasti da
un vecchio buono. È stata un’avventura che ho vissuto come Elio: improvvisa,
quasi inaspettata, breve, intensa, dolorosa, significativa.
La trama è
semplice, scarna: racconta di due persone che, nel giro di un’estate, si
conoscono, si innamorano e poi si perdono; nulla di sensazionale, tutto già
visto. Il romanzo non è privo di difetti: simbolo di ogni relazione; parla
d’amore nella sua forma più aggressiva e sincera – e l’imprevedibilità spicca
grazie alla prima persona di Elio, che mette in ombra Oliver e lo rende
conoscibile solo a tratti. Aciman descrive un temporale estivo, una parentesi
che ha quasi il gusto del ricordo – sempre del rimpianto.
Iconico e, in
pratica, riassuntivo del messaggio è il monologo del padre di Elio: “Rinunciamo a tanto di noi per guarire più in
fretta del dovuto, che finiamo in bancarotta a trent’anni, e ogni volta che
ricominciamo con una persona nuova abbiamo meno da offrire. Ma non provare
niente per non rischiare di provare qualcosa… che spreco!”. Un inno al
dolore nella sua forma più acuta – più pura: un dolore costruttivo, non
distruttivo; un investimento nei propri sentimenti, arricchiti dall’esperienza
e privati dell’inibizione data dalla paura. Una sorta di rivisitazione de “il
dolore fortifica”, dove lo squilibrio emotivo non crea muri, bensì nuove e più
forti esperienze emotive. In quest’ottica, la tristezza contribuisce al
tracciato di picchi alti e bassi – il movimento vitale che si distingue dalla
linea piatta, sinonimo di morte.
A differenza
del film, però, il libro aggiunge amarezza al contesto generale della storia: Elio
e Oliver finiscono per vivere intrappolati nel dolore della separazione,
cristallizzati in quella che definiscono entrambi una “vita parallela” – quasi “un
coma”. Sperimentano la tentazione continua senza mai cedervi, schiavi di un
passato fugace, troppo breve e che, alla fine, acquista più valore di tutto il
resto della loro esistenza. Vivono voltati a guardare quella “cosa che quasi non fu mai” e si ancorano
al loro “momento preferito” tra i pochi,
intensi momenti – più reali della realtà stessa.
È qui che
subentra una malinconia che esce dalle pagine e viene assorbita dal lettore – e
parlo soprattutto di esperienza personale. Perché è snervante e doloroso
leggere di un amore in potenza, mai veramente realizzato; si assiste inermi
allo sviluppo di una relazione che ristagna nella mente e non si sporca mai di
concretezza. Ritorna il concetto del “non
provare niente per non rischiare di provare qualcosa”, dove il provare non si riferisce più tanto ai
sentimenti quanto all’azione in sé: Oliver ed Elio hanno paura di mettersi in
gioco, di svegliarsi dal “coma”, e
mantengono una distanza non necessaria – deleteria. Il risultato è un lento
consumarsi dall’interno, ognuno singolarmente e senza mai consultare l’altro,
nonostante le loro “vite parallele”
siano facilmente incrociabili tra loro. E dopo vent’anni si guardano e sperano
e si parlano e ricordano e rimpiangono – bloccati nella passione di via Santa
Maria dell’Anima a Roma, senza possibilità di replica.
Elio si tuffa
nel dolore del rimpianto fino a renderlo perno dell’intera esistenza – la sua colonna
portante. Vive una vita all’insegna delle emozioni private del contesto pratico:
sentimenti staccati dalle esperienze, sublimati e idealizzati. È così che la
connessione con Oliver – la stessa che li spinge a essere l’uno per l’altro il “catalizzatore che ci consente di diventare
ciò che siamo”, di “diventare così
totalmente duttili che ognuno si trasforma nell’altro” – rimane sempre
presente e tanto vivida da permettergli, ancora dopo vent’anni, di pensare: “guardami negli occhi, trattieni il mio
sguardo, e chiamami col tuo nome”.
In conclusione,
non so ancora spiegarmi cosa mi abbia colpito in particolare di una storia
colma d’amore e rimpianti, nemmeno tanto diversa da altre già raccontate – o vissute.
È stata una combinazione di stato d’animo, periodo dell’anno e di vita, ambientazione
conosciuta nel quotidiano e – perché no – fascinazione per l’amore tra due
uomini. Ho fatto del rimpianto di Elio e Oliver un rimpianto personale; a costo
di essere banale, ammetto di aver pensato che, spesso, si fa l’errore di non
godersi abbastanza il momento – di non accorgersi nemmeno dell’importanza di
quello che diventerà un ricordo, un’esperienza irripetibile.
Sporchiamo di
realtà questi momenti, viviamoli a fondo e poi conserviamoli come cimeli – non allontaniamoli
solo perché fonte di sentimenti scomodi.
Alla fine, “cuore e corpo ci vengono dati una volta sola”.